La connessione dei procedimenti di divisione immobiliare e usucapione: la prospettiva di una dilatazione dei tempi del giudizio

  • La cornice normativa

L’art. 1158 del codice civile stabilisce che: “la proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni”.

La dimostrazione del possesso, uti dominus (come se fosse il proprietario), da parte dell’attore (anche in qualità di comproprietario nei confronti degli altri condividenti), perdurante da oltre vent’anni, continuo, non interrotto, pacifico, pubblico, non equivoco e accompagnato, quindi, dall’animo di tenere l’immobile come proprio, legittima l’acquisto a titolo originario e definitivo della proprietà del bene stesso, a titolo di usucapione.

Sotto altro profilo, ai sensi dell’art. 784 del codice di procedura civile: “le domande di divisione ereditaria o di scioglimento di qualsiasi altra comunione debbono proporsi in confronto di tutti gli eredi o condomini e dei creditori opponenti se vi sono”.

Ciascun partecipante ad una comunione può quindi provocarne lo scioglimento, esercitando un’azione di divisione, ai sensi dell’art. 784 c.p.c., e ciò a prescindere dalla concorrente volontà degli altri comunisti/coeredi, attraverso la predisposizione di un progetto di divisione giudiziale.

L’azione di divisione è imprescrittibile, ovvero il diritto allo scioglimento della comunione è esercitabile in ogni tempo.

  • Le connessioni tra l’usucapione e l’azione di divisione

E’ frequente che i procedimenti giudiziali di divisione e di usucapione di immobili possano essere tra loro connessi, pur nell’ambito dell’autonomia e della diversità di presupposti delle due tipologie di procedimento. E’ il caso dell’azione di divisione ereditaria esercitata su uno o più immobili, su cui sussiste una comunione, oggetto di una o più successioni ereditarie, in relazione ai quali vengano esercitate, allo stesso tempo, una o più azioni di usucapione da parte degli stessi condividenti, o persino di soggetti terzi estranei alla comunione. Si può anche prospettare l’ipotesi inversa in cui una parte eserciti in via autonoma un’azione di usucapione su immobili in relazione ai quali venga successivamente instaurato un altro autonomo giudizio di divisione, in cui questi assuma il ruolo di parte convenuta.

In tali ipotesi, i procedimenti di usucapione e divisione potranno quindi avere ad oggetto, in tutto o in parte, gli stessi immobili e le stesse parti coinvolte, dando origine a procedimenti litisconsortili connessi ma autonomi, perché fondati su presupposti diversi. Il procedimento di usucapione è tuttavia tale da influire e, in certi casi, da essere pregiudiziale rispetto al procedimento di divisione, che andrà poi a stabilire definitivamente le quote spettanti a ciascuno dei condividenti. Tali quote dovranno infatti essere calcolate tenendo conto di quanto già stabilito, a titolo definitivo, nel procedimento di usucapione già definito, sottraendo quindi dal progetto divisionale quanto già assegnato in precedenza con il procedimento di usucapione.

  • Le conseguenze processuali in termini di connessione tra procedimenti

Nel momento in cui parte convenuta nel procedimento di usucapione proponga una domanda di divisione di tutto o parte degli immobili oggetto di usucapione si determina una connessione tra i due giudizi. I procedimenti potrebbero trovarsi in rapporto di pregiudizialità, l’uno nei confronti dell’altro, e determinare la necessità di sospendere il giudizio di divisione, in attesa della definizione del giudizio di usucapione, come verrà di seguito evidenziato.

Va innanzitutto rilevato che l’atto introduttivo del giudizio di divisione ereditaria non interrompe il decorso del tempo utile all’usucapione da parte del convenuto, tale atto non è infatti rivolto alla contestazione diretta ed immediata del possesso “ad usucapionem” (Cass. Civ. n. 6785/14).

Inoltre il comproprietario che si ritenga proprietario per usucapione di un bene in comunione, non può iniziare il giudizio di divisione ma deve intraprendere il procedimento di usucapione. Quindi, qualora sia stato convenuto in un giudizio di divisione da uno o più degli altri comproprietari, dovrà far valere l’avvenuta usucapione in tale giudizio poiché la divisione, accertando i diritti delle parti sulla comunione di beni indivisi, presuppone il riconoscimento dell’appartenenza delle cose in comunione. Al contrario, ove non contesti il diritto alla divisione di quel determinato cespite o resti contumace, non può opporre successivamente l’usucapione al condividente o al terzo aggiudicatario cui detto bene sia stato assegnato (Cassazione civile sez. II, 13/06/2018, n.15504)

Sul rapporto di pregiudizialità tra i due procedimenti si è tuttavia affermato che: “tra due giudizi riguardanti, rispettivamente, lo scioglimento di una comunione immobiliare e l’usucapione di uno degli immobili da dividere, non sussiste un rapporto di pregiudizialità ai sensi dell’art. 295 c.p.c., che va intesa in senso non meramente logico, ma tecnico giuridico, in quanto determinata da una relazione tra rapporti giuridici sostanziali distinti ed autonomi, uno dei quali (pregiudiziale) integra la fattispecie dell’altro (dipendente), in modo tale che la decisione sul primo si riflette necessariamente, condizionandola, su quella del secondo” (Cassazione civile sez. VI, 02/03/2016, n.4183). Una relazione di pregiudizialità, tale da determinare la sospensione necessaria del processo, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., non ricorre quindi tra il giudizio di usucapione e quello di scioglimento della comunione, perché il giudice dovrà invece verificare la sussistenza dei presupposti per disporre la riunione dei procedimenti ai sensi dell’art. 274 c.p.c.  ovvero se sia ancora realizzabile la riunione, ritardando il procedere dell’uno in attesa della maturazione della fase istruttoria dell’altro.

Diverso è invece il caso in cui i procedimenti si trovino irrimediabilmente in fasi processuali diverse, tali da renderne impossibile la riunione (come nel caso, ad esempio, in cui una causa sia già rimessa in decisione e l’altra si trovi ancora in fase di trattazione o istruttoria). In tale ipotesi sarà infatti necessario procedere con la sospensione del procedimento di divisione, in attesa della definizione del procedimento di usucapione.

Vi è infine da considerare un aspetto che viene in considerazione in relazione ai due procedimenti. Se infatti non sussiste un rapporto di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico, questo si manifesta quantomeno sotto il profilo logico tanto nel caso in cui venga disposta la sospensione del procedimento di divisione, in attesa della pronuncia sull’usucapione, quanto nel caso in cui venga disposta la riunione dei procedimenti di divisione e usucapione (a seconda delle fasi in cui si trovino). L’azione di usucapione si troverà infatti necessariamente in rapporto di pregiudizialità logica rispetto al procedimento di divisione. La conseguenza è che solo il passaggio in giudicato del provvedimento sulla richiesta di usucapione potrà determinare l’avvio delle fasi caratterizzanti il procedimento di divisione, ciò al fine di non assumere decisioni che risultino in contrasto tra di loro, assegnando delle quote ai condividenti che non sarebbero loro spettate.

Conclusioni

Il rapporto di pregiudizialità logica tra i procedimenti di usucapione e divisione connessi rende ancora più complessa l’attribuzione definitiva di proprietà del bene immobile o di una frazione di esso. A ciò si aggiunga che anche il procedimento di divisione, solo in apparenza meno conflittuale, richiede comunque a tutte le parti l’onere iniziale di fornire la prova rigorosa relativa alla proprietà o alla titolarità di un diritto reale. Tale dimostrazione non potrà infatti essere fornita con riconoscimenti della controparte, in base ad un ragionamento deduttivo, ed il procedimento dovrà infine essere concluso con un progetto divisionale.

Se i procedimenti di usucapione e divisione connessi diventano, frequentemente, procedimenti litisconsortili a pluralità di parti, la prospettiva è che l’attribuzione definitiva di una o più frazioni di proprietà del bene immobile ai vari condividenti avvenga a costi e tempi rilevanti, considerati anche i diversi gradi di impugnazione del giudizio.

Attualmente, tanto i procedimenti di usucapione quanto quelli di divisione sono soggetti a mediazione obbligatoria ovvero ad un tentativo, preliminare al giudizio, di soluzione della vertenza. E’ forse auspicabile che ove il tentativo di conciliazione obbligatorio debba essere effettuato in tali tipologie di vertenze connesse, avrà maggiore efficacia quando la visuale del mediatore sia allargata a tutte le vertenze connesse e non, come spesso accade, limitata alle singole richieste del singolo autonomo procedimento. Tale limitazione, spesso dovuta al momento temporale di introduzione del singolo procedimento, potrebbe forse essere risolta con il ricorso alla mediazione delegata dal giudice, una volta che i procedimenti siano stati riuniti o che sia acclarata la presenza di plurimi procedimenti pendenti sui medesimi immobili.

Avv. Federico Donini

Pubblicato su altalex il 24.07.22

https://www.altalex.com/documents/news/2022/07/24/connessione-procedimenti-divisione-immobiliare-usucapione

LE UDIENZE CIVILI DA REMOTO E L’OBBLIGO DI PRESENZA DEL GIUDICE IN UFFICIO

  • La cornice normativa del D.L. n. 11/20

 

Il Decreto legge 8 marzo 2020, n. 11 (Misure straordinarie ed urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria) all’art. 2, lettera f), ha introdotto la possibilità di svolgere le udienze civili, alla sola presenza dei difensori e delle parti, con collegamenti da remoto in videoconferenza.

Tale articolo stabilisce in particolare che: “la previsione dello svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice, anche se finalizzate all’assunzione di informazioni presso la pubblica amministrazione mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia”.

L’art. 83 del D.L. n. 18/2020 ha successivamente distinto tra tipologie di procedimenti più urgenti che richiedono una trattazione immediata, rispetto ad altri procedimenti per i quali, fino al 31 luglio 2020, l’estensione e le modalità di svolgimento dell’attività giurisdizionale sono rimesse ad indicazioni fornite dal capo dell’ufficio giudiziario, sulla base di verifiche ed intese con le autorità sanitarie competenti.

IL d.l. n. 18/2020 è stato dapprima convertito con modifiche con l. 24 aprile 2020, n. 27 (in vigore dal 30.4.2020). E’ stato, inoltre, ulteriormente modificato con d.l. 30 aprile 2020, n. 28 (in vigore dall’1.5.2020), che ha stabilito come lo svolgimento dell’udienza da remoto debba in ogni caso avvenire con la presenza del giudice nell’ufficio giudiziario e con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti (per ulteriori approfondimenti: https://www.doninipettinato.it/le-udienze-civili-in-videoconferenza-un-futuro-ancora-da-scrivere/ ).

  • I protocolli dei Tribunali e le delibere del CSM

 

Nella situazione emergenziale si sono susseguiti protocolli e vademecum da parte di diversi Tribunali per dettare le prassi per lo svolgimento delle udienze da remoto, nell’ottica di far proseguire, laddove possibile, la trattazione dei singoli procedimenti. Ciò è avvenuto anche per l’assenza di una specifica disciplina legislativa.

I protocolli definiscono attualmente le prassi e le modalità operative di rinvio fuori udienza e di svolgimento delle udienze civili e penali, nonché delle relative camere di consiglio, mediante collegamenti da remoto o mediante il deposito in telematico di sintetiche note scritte, contenenti istanze e conclusioni delle parti.

La nuova formulazione dell’art. 83 del D.L. n. 18/2020 (che prevede ora lo svolgimento dell’udienza con la presenza del giudice nell’ufficio giudiziario) ha tuttavia subito numerose critiche, che hanno evidenziato l’inefficacia della norma nell’attuazione concreta delle udienze da remoto.

In Lombardia, una delle regioni più colpite dal COVID, in una nota al decreto di linee guida e misure organizzative del 06.05.2020 del Tribunale di Brescia si è sottolineato che: “Bisogna realisticamente prendere atto che il collegamento da remoto – contrariamente alla precedente decretazione di urgenza – nel decreto-legge n. 28/2020 non sembra rientrare tra le opzioni privilegiate. Infatti, la previsione che “lo svolgimento dell’udienza deve in ogni caso avvenire con la presenza del giudice nell’ufficio giudiziario” si pone in contrasto insanabile con quella, decisamente prioritaria, della salvaguardia della salute tout court, se è vero che i Capi degli Uffici “adottano le misure organizzative, anche relative alla trattazione degli affari giudiziari, necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal Ministero della salute…”. Il Legislatore della conversione non mancherà, auspicabilmente, di porre rimedio a questa evidente quanto insanabile contraddizione.”

Il CSM nel parere del 14.05.2020 ha altresì argomentato e concluso che: appare auspicabile un intervento di revisione dell’obbligo di presenza del giudice presso l’ufficio per la celebrazione dell’udienza da remoto che, oltre a restituire maggiore funzionalità all’attività dei giudici di merito che operano da remoto, consentirebbe anche di superare i dubbi interpretativi prontamente sollevati dalla modifica della citata lettera f) con riguardo al giudizio di legittimità. In assenza della modifica auspicata, apparirebbe comunque necessario assicurare efficaci misure di sicurezza igienico – sanitarie al fine di contenere il rischio di contagio da COVID19 per i giudici e per tutti coloro che devono essere presenti negli uffici giudiziari per la celebrazione delle udienze.”

E’ pertanto evidente che, se da un lato si è fornita la possibilità di utilizzare una nuova modalità di svolgimento dell’udienza con modalità da remoto, d’altro lato la timida attuazione del provvedimento, favorita da continui rimandi a specifici quanto improvvisi nuovi obblighi e condizioni, ha determinato un enorme rallentamento, a tal punto che attualmente i rinvii delle udienze non urgenti rappresentano la regola, rispetto all’eccezione dello svolgimento dell’udienza da remoto. Esattamente ciò che avrebbe dovuto essere evitato dopo che si è dotata la magistratura di piattaforme telematiche (Teams e skype for business).

  • Il protocollo delle udienze civili da remoto in Inghilterra e Galles

 

Il 26.03.2020 è stato redatto il protocollo delle udienze civili da remoto in Inghilterra e Galles (Civil Court guidance on how to conduct remote hearings), che può far comprendere quali siano le differenze di attuazione nella gestione dei processi da remoto.

Le brevi linee guida dettate per il territorio d’oltre manica ci danno un’idea dei diversi principi con cui sono state pensate. Il protocollo esordisce infatti con un principio di massima flessibilità di attuazione, nell’ottica di minimizzare il rischio di trasmissione del COVID 19.

Le udienze da remoto possono così svolgersi tanto nei Tribunali quanto in luoghi privati. Possono utilizzare esplicitamente diverse piattaforme, anche in via non esclusiva (BT MeetMe, Skype for Business, Zoom, link a piattaforme video dei Tribunali o altro strumento appropriato), e l’utilizzo di diversi strumenti (tra cui il cellulare) lasciando spazio, come ultima ratio, anche all’ordinaria telefonata. E’ prevista la possibilità di registrazione da parte del giudice e delle parti (ma solo su esplicita autorizzazione del giudice), la possibilità di rendere pubbliche le registrazioni e anche le stesse udienze da remoto, ove tecnicamente possibile. E’ altresì prevista la possibilità di utilizzare altri metodi di video comunicazione, ove considerati appropriati. L’impossibilità di effettuare l’udienza da remoto (per numero di parti o per tipologia di udienza) viene infine considerata come possibilità, che deve tuttavia essere sottoposta al vaglio delle parti, chiamate a proporre al giudice eventuali e più appropriate metodologie di svolgimento dell’udienza, in un’ottica di collaborazione di tutti gli attori del procedimento giudiziario da remoto.

Conclusioni

Non si può giungere alla conclusione per cui il modello d’oltre manica sia in assoluto il migliore per l’udienza da remoto, sono infatti presenti profili di criticità anche in quel modello (quali ad esempio la pubblicazione e gestione dei dati sensibili e l’utilizzo indifferenziato di multipiattaforme). Si può tuttavia ragionevolmente sostenere che l’udienza da remoto stia in Italia quantomeno stentando a decollare proprio per la mancanza di un principio di flessibilità e di una compiuta disciplina normativa.

Nel settore civile l’udienza da remoto è disincentivata e sostituita dalla prassi generalizzata di rinvio dei processi non urgenti, che, nell’individuazione effettuata del legislatore, costituisce la maggioranza dei processi. L’emergenza sanitaria dovrebbe essere invece l’occasione per ridisegnare una nuova ed alternativa modalità di svolgimento del processo, per non ritrovarsi, in autunno o all’inizio del prossimo anno, ad una nuova situazione di stallo della giustizia di fronte ad una possibile crisi sanitaria.

E’ prevedibile che l’introduzione della differente metodologia di svolgimento del processo da remoto possa incontrare qualche difficoltà di attuazione. Tuttavia la mancanza di elasticità, di linee guida univoche e l’introduzione di nuovi obblighi e condizioni, rende la procedura farraginosa e disincentivante per tutti gli operatori di giustizia.

Avv. Federico Donini

pubblicato il 28.05.2020 su Diritto.it – Quotidiano di informazione giuridica, all’indirizzo:

https://www.diritto.it/le-udienze-civili-da-remoto-e-lobbligo-di-presenza-del-giudice-in-ufficio/

Le responsabilita’ ed il ruolo dell’intermediario e del gestore del conto nel mercato del “Forex”

Il termine “Forex” è l’acronimo di Foreign Exchange ed indica il mercato in cui si scambiano valute in termini di altre valute (ad esempio il cambio Euro/dollaro) Nel mercato italiano è indicato come mercato valutario e numerose sono le piattaforme di “trading online” utilizzate anche dai piccoli risparmiatori. Il Forex non ha una sede fisica e può coinvolgere qualsiasi investitore, istituzionale e non. A causa delle enormi potenziali capacità di guadagno e della facilità di gestione on-line, ha attirato l’attenzione di molti piccoli investitori. Non viene tuttavia spesso considerata anche l’elevata probabilità di perdere denaro in un breve lasso di tempo.

Occorre quindi prestare particolare attenzione al fatto che la prestazione professionale dell’intermediario può essere svolta nei confronti del pubblico solamente da determinati soggetti in possesso di specifici requisiti, oltre che della relativa autorizzazione. Tale ostacolo viene spesso aggirato con la sottoscrizione di contratti con soggetti abilitati all’apertura di conti per il trading (depositari), tramite soggetti “segnalatori”, che poi eseguono le operazioni materiali di “trading”, senza le prescritte autorizzazioni.

Vi è da rilevare infatti che l’art. 18, I° co., del D.Lgs. n. 58/98 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria) stabilisce espressamente che: “l’esercizio professionale nei confronti del pubblico dei servizi e delle attività di investimento è riservato alle imprese di investimento e alle banche”.

L’art. 21 del D.Lgs. n. 58/98 stabilisce inoltre che: “nella prestazione dei servizi e delle attivita’ di investimento e accessori i soggetti abilitati devono: a) comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità’ dei mercati; b) acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati; c) utilizzare comunicazioni pubblicitarie e promozionali corrette, chiare e non fuorvianti; d) disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi e delle attivita’”.

La responsabilità dell’intermediario determina l’obbligo di risarcire il danno cagionato all’investitore nei seguenti casi: qualora ometta di informarsi sulla propensione al rischio del cliente o di rappresentare a quest’ultimo i rischi dell’investimento; qualora non ottemperi alla volontà del contraente, o compia operazioni finanziarie inadeguate, senza autorizzazione, quando dovrebbe astenersene; infine nel caso in cui non lo informi sulle reali motivazioni della perdita degli investimenti effettuati.

E’ necessario fornire all’utente un’informativa sulla propensione al rischio del prodotto finanziario oggetto di investimento, ed operare, successivamente, una valutazione di adeguatezza e appropriatezza dell’utente rispetto alla conoscenza dello specifico settore di investimento.

Ai sensi di quanto previsto dall’art. 39 del Regolamento recante norme di attuazione del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Adottato dalla Consob con delibera n. 16190 del 29 ottobre 2007 e successivamente modificato con delibere n. 16736 del 18 dicembre 2008, n. 17581 del 3 dicembre 2010, n. 18210 del 9 maggio 2012, n. 19094 dell’8 gennaio 2015 e 19548 del 17 marzo 2016), gli intermediari ottengono dal cliente, o potenziale cliente, le informazioni necessarie in merito: a) alla conoscenza ed esperienza nel settore di investimento rilevante per il tipo di strumento o di servizio; b) alla situazione finanziaria; c) agli obiettivi di investimento. Inoltre il successivo art. 40 stabilisce che: “gli intermediari valutano che la specifica operazione consigliata o realizzata nel quadro della prestazione del servizio di gestione di portafogli soddisfi i seguenti criteri: a) corrisponda agli obiettivi di investimento del cliente; b) sia di natura tale che il cliente sia finanziariamente in grado di sopportare qualsiasi rischio connesso all’investimento compatibilmente con i suoi obiettivi di investimento; c) sia di natura tale per cui il cliente possieda la necessaria esperienza e conoscenza per comprendere i rischi inerenti all’operazione o alla gestione del suo portafoglio. Una serie di operazioni, ciascuna delle quali è adeguata se considerata isolatamente, può non essere adeguata se avvenga con una frequenza che non è nel migliore interesse del cliente”.

La Suprema Corte ha precisato al riguardo che: “la responsabilità dell’intermediario che ometta di informarsi sulla propensione al rischio del cliente o di rappresentare a quest’ultimo i rischi dell’investimento, ovvero che compia operazioni inadeguate quando dovrebbe astenersene, ha natura contrattuale, investendo il non corretto adempimento di obblighi legali facenti parte integrante del contratto-quadro (o contratto d’investimento) intercorrente tra le parti” (Cass. Civ. sent. n.10640/16; in senso conforme Cass. Civ. sez. Unite sent. n. 26724/07).

Conseguentemente l’intermediario non autorizzato, che assuma la semplice veste di segnalatore, nei confronti di soggetti abilitati, deve ritenersi responsabile verso l’investitore per svolgere attività riconducibili al servizio di gestione portafogli in mancanza delle prescritte autorizzazioni. Tale comportamento determina la violazione dell’art. 18, comma 1, TUF, e degli obblighi di informazione attiva e passiva nonché di trasparenza e diligente gestione di cui all’art. 21 TUF (come meglio specificati dall’art. 39 del Regolamento di attuazione adottato con delibera Consob n. 16190 del 29.10.2007 e successive modifiche).

La realizzazione di tale fattispecie dà luogo ad una duplice responsabilità contrattuale, sia per l’intermediario autorizzato, depositario del conto, che legittima il comportamento del segnalatore non autorizzato, sia dello stesso segnalatore non autorizzato (sia esso persona fisica o giuridica), con conseguente obbligo di risarcimento dei danni. Il risarcimento del danno va considerato come debito di valore e quindi sono dovuti rivalutazione monetaria e interessi al tasso legale dal giorno in cui, con la perdita del capitale investito, si è verificato il danno, ed al tasso di cui all’art. 5 del d.lgs. 231/2002 (interessi moratori), a partire dalla domanda giudiziale (Tribunale di Verona, III° sez. civile, sent. n. 288/20).

Avv. Federico Donini

pubblicato il 08.04.2020 su Diritto.it – Quotidiano di informazione giuridica, all’indirizzo:

Le udienze civili in videoconferenza: un futuro ancora da scrivere

  • La cornice normativa

 

Il Decreto legge 8 marzo 2020, n. 11 (Misure straordinarie ed urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria) all’art. 2, lettera f), ha introdotto la possibilità di svolgere le udienze civili, alla sola presenza dei difensori e delle parti, con collegamenti da remoto in videoconferenza.

L’art. 2 lett. F del sopracitato decreto stabilisce in particolare: “la previsione dello svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori e dalle parti mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia”. Inoltre: “Lo svolgimento dell’udienza deve in ogni caso avvenire con modalita’ idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti. Prima dell’udienza il giudice fa comunicare ai procuratori delle parti ed al pubblico ministero, se è prevista la sua partecipazione, giorno, ora e modalità di collegamento. All’udienza il giudice da’ atto a verbale delle modalità con cui si accerta dell’identita’ dei soggetti partecipanti e, ove trattasi di parti, della loro libera volontà. Di tutte le ulteriori operazioni è dato atto nel processo verbale”.

Il tempestivo e successivo provvedimento del D.G.S.I.A. del 10.03.2020 ne ha curato l’attuazione, rendendo concretamente possibile lo svolgimento delle udienze civili, mediante collegamenti da remoto organizzati dal giudice. L’art. 2 del provvedimento stabilisce in particolare, per lo svolgimento delle udienze civili, che: “Nell’ipotesi prevista dall’art. 2, comma secondo, lett. f), del Decreto legge 8 marzo 2020, n. 11, le udienze civili possono svolgersi mediante collegamenti da remoto organizzati dal giudice utilizzando i seguenti programmi attualmente a disposizione dell’Amministrazione e di cui alle note già trasmesse agli Uffici Giudiziari (prot. DGSIA nn. 7359.U del 27 febbraio 2020 e 8661.U del 9 marzo 2020): Skype for Business; Teams. I collegamenti effettuati con i due programmi su dispositivi dell’ufficio o personali utilizzano infrastrutture di quest’amministrazione o aree di data center riservate in via esclusiva al Ministero della Giustizia.”

  • I protocolli e le delibere del CSM

 

Nell’attuale situazione emergenziale si sono susseguiti protocolli e vademecum di diversi Tribunali, sia in materia civile che penale, diretti all’attuazione dei sopracitati provvedimenti, nell’ottica di far proseguire, laddove possibile, la “macchina della giustizia”. I magistrati, in primis, sono stati dotati della possibilità di accedere alla piattaforma telematica, che consente le udienze in videoconferenza, anche attraverso la realizzazione di corsi di formazione a distanza in corso di svolgimento.

Occorre rilevare che, attualmente, non sussiste un obbligo di svolgimento dell’udienza con modalità telematica (o almeno non per tutti i procedimenti). Le stesse indicazioni presenti nel provvedimento del D.G.S.I.A. del 10.03.2020, agli artt. 2 e 3, introducono una mera possibilità e ciò anche in attuazione dell’espressa previsione di cui all’art. 2, lettera f), del Decreto legge 8 marzo 2020, n. 11. Tale possibilità rivolta agli operatori della giustizia (magistrati, cancellieri, ausiliari e avvocati), ove dovesse diventare vincolante, potrebbe comportare delle implicazioni di fondamentale importanza per il sistema economico e le istituzioni, evitando sovraccarichi giudiziari e lentezza dei procedimenti, determinati dal rinvio sine-die delle udienze, in attesa della fine del periodo emergenziale.

L’art. 83 del D.L. n. 18/2020 ha distinto tra tipologie di procedimenti più urgenti che richiedono una trattazione immediata, rispetto ad altri procedimenti che verranno comunque sospesi almeno fino al 15 aprile (salvo proroga) ed una seconda fase, dal 16 aprile fino al 30 giugno 2020, nella quale l’estensione e le modalità di svolgimento dell’attività giurisdizionale sono rimesse ad indicazioni fornite dal dirigente dell’ufficio, sulla base di verifiche ed intese con le autorità sanitarie competenti.

Nel tavolo di concertazione che CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) e CNF (Consiglio Nazionale Forense) hanno istituito con la partecipazione del D.G.S.I.A., sono stati messi a punto delle proposte di protocolli operativi, con lo scopo di fornire una unitaria regolamentazione da parte degli uffici giudiziari sullo svolgimento delle udienze civili e penali, nel periodo di emergenza, nelle due fasi: la prima fino al 15 aprile e la seconda dal 15 aprile al 30 giugno 2020.

Per consentire lo svolgimento dell’attività, i capi degli uffici giudiziari possono infatti adottare linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze (art. 83 comma 7 lett. d, D.L. n. 18/20).

I protocolli definiscono le prassi e le modalità operative di rinvio fuori udienza e di svolgimento delle udienze civili e penali, nonché delle relative camere di consiglio, mediante collegamenti da remoto, e incentivano la trasmissione degli atti urgenti per via telematica. Nello specifico, per quanto riguarda le udienze civili, vengono stabilite due modalità di svolgimento: la prima per le udienze civili tramite collegamento da remoto (in attuazione dell’art. 83 comma 7 lett. F, D.L. n. 18/20), la seconda per le udienze civili tramite trattazione scritta (in attuazione dell’art. 83 comma 7 lett. H, D.L. n. 18/20). Nel primo caso vengono definite le modalità di invito e convocazione delle parti, per le udienze da svolgersi in videoconferenza (tramite l’invio via mail di link di collegamento), oltre alle modalità di svolgimento dell’udienza in contraddittorio tra le parti (identificazione delle parti e dei procuratori, modalità di collegamento e soggetti legittimati, produzione di documenti in udienza, modalità di lettura del verbale d’udienza, eventuale contestuale assunzione di provvedimenti decisori). Nel secondo caso viene definita, tramite trattazione scritta e scambio di note autorizzate, lo svolgimento delle udienze per i procedimenti, che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti.

Per quel che riguarda lo svolgimento delle udienze in videoconferenza tramite collegamento da remoto, non esistono ancora norme che ne disciplinino la procedura. A tal proposito il CSM ha tuttavia invitato, con delibere del 5 e 11 marzo 2020, il Ministro della giustizia a valutare le modifiche delle norme processuali necessarie a favorire e disciplinare, nella fase emergenziale, l’utilizzo di tale strumento.

  • Le conseguenze processuali in termini di svolgimento delle udienze da remoto

 

Ad oggi risulta problematico stabilire preventivamente le conseguenze processuali nel caso in cui uno dei difensori non accettasse l’invito a svolgere l’udienza in videoconferenza o, ancora, se non fosse possibile il collegamento in videoconferenza per le più svariate ragioni. A tal proposito le linee guida del CSM del 20.03.20 (e successiva integrazione del 01.04.20) hanno previsto che in caso di malfunzionamenti, di scollegamenti involontari e di impossibilità di ripristino, il giudice dovrà rinviare l’udienza, facendo dare comunicazione alle parti del verbale d’udienza contenente il disposto rinvio. Nel concreto è attualmente difficile penetrare i meccanismi di gestione volontaria/involontaria o di possibilità/impossibilità di ripristino dei collegamenti. Ciò a maggior ragione se fosse interesse di una delle parti procrastinare sine die il procedimento e, viceversa, fosse interesse della controparte definire nella maniera più celere il procedimento. Non si ritiene possa infatti essere sufficiente desumere dai protocolli (seppur contenenti linee guida vincolanti, ai sensi dell’art. 83 comma 7 lett. d, D.L. n. 18/20) una dichiarazione di contumacia della parte, una mancata comparizione della parte con adozione dei conseguenti provvedimenti ex artt. 181 e 309 c.p.c. o, diversamente, un comportamento processuale della parte valutabile dal giudice ex artt. 91 e 96 c.p.c.. Né è presumibile ritenere che il richiamo a norme deontologiche possa essere utile in tal senso.

Resta allora da valutare la soluzione già suggerita dal CSM di una rapida valutazione di cambiamento o adattamento delle norme processuali attualmente in essere, in modo da fornire una guida agli operatori del diritto che, diversamente, guarderanno con estrema diffidenza all’utilizzo di tale strumento.

  • L’udienza in videoconferenza

 

Attualmente la norma prevede l’utilizzo del collegamento da remoto anche per la comparizione personale della parte. Di qui la necessità di disciplinare tutti i possibili aspetti che riguardano anche l’identificazione e la legittimazione della parte a comparire in videoconferenza.

In tal senso le linee guida del CSM del 20.03.20 hanno previsto l’espressa dichiarazione dei difensori delle parti in merito: alle modalità di partecipazione della parte assistita al momento dell’udienza ed all’insussistenza, né da parte dei difensori né da parte dei loro assistiti, di collegamenti con soggetti non legittimati. Tale onere incombe anche sulla parte che si colleghi da un luogo diverso da quello da cui si collega il difensore.

E’ richiesta poi, per la presenza della parte, l’utilizzo del medesimo applicativo previsto per gli operatori di giustizia, con evidenti limiti. Al cittadino viene infatti richiesta la padronanza e l’utilizzo di una piattaforma web, che potrebbe non essere di immediata fruibilità. E’ quindi auspicabile che i decreti intervengano a determinare una maggiore elasticità nell’utilizzo delle diverse piattaforme, in modo da garantire anche ai cittadini, parti del giudizio, la più ampia fruibilità, sviluppando applicativi che siano meno pesanti in termini di utilizzo, su dispositivi elettronici fissi e soprattutto mobili (attualmente i più utilizzati).

Nonostante tutte le logiche e comprensibili difficoltà applicative del momento, la trattazione con il sistema della videoconferenza può tuttavia diventare una grande opportunità per il futuro, un ulteriore ed assai utile ausilio per il giudice per la trattazione di procedimenti giudiziari civili e penali a distanza, con risparmio, per tutti gli operatori, in termini di costi, tempo, organizzazione e qualità della vita (si pensi alle ipotesi di impossibilità o semplicemente alle difficoltà di spostamento di magistrati, operatori di giustizia, avvocati, parti ed imputati o soltanto di alcuni di questi soggetti).

Di qui l’ulteriore e successiva esigenza di normare questo strumento facoltativo per renderlo definitivo, anche nella fase successiva all’emergenza.

  • La trattazione scritta mediante note autorizzate

 

Non sembra invece altrettanto efficace il secondo strumento da utilizzare nelle udienze civili, tramite trattazione scritta, a mezzo note autorizzate, riservato a quelle fasi procedimentali che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori. Non è infatti comprensibile perché l’adozione del sistema dell’udienza in videoconferenza non possa risultare altrettanto utile anche in questi casi, andando quindi semplicemente a sostituire la modalità di svolgimento dell’udienza, che invece con questa seconda metodologia si trasformerebbe da orale a scritta.

In primo luogo perché si eviterebbe il prolificare di ulteriori scritti difensivi con termini e modalità attualmente imprecisati di deposito (occorrerebbe inoltre fare riferimento al deposito degli atti tramite processo telematico, che appesantirebbe ulteriormente il carico degli operatori di giustizia in termini di scadenze e di gestione degli atti). Secondariamente perché andrebbe comunque prevista, anche in questo caso, una modifica alle norme processuali, per evitare di lasciare una eccessiva discrezionalità e responsabilità al giudicante in termini di utilizzo delle note (quanto alla tipologia udienze, ai termini di scadenza per il deposito ed alle modalità di inoltro). In ultima analisi perché, sostituire una fase di trattazione scritta con lo svolgimento orale dell’udienza rappresenta, soprattutto per il giudicante, una penalizzazione in termini di chiarezza del thema probandum e decidendum. Si potrebbe infatti determinare un affastellamento di atti, istanze domande ed eccezioni, che in un processo orale vengono invece necessariamente razionalizzate, ordinate, ridotte e sintetizzate dal giudicante, in contradittorio tra le parti (si pensi alla semplice necessità di richiedere chiarimenti alle parti, di effettuare dei tentativi di conciliazione, di fissare e calendarizzare le udienze, di assumere provvedimenti contestuali in udienza).

Conclusioni

In definitiva l’utilizzo dello strumento dell’udienza in videoconferenza rappresenta certamente un passo in avanti in termini di utilizzo della tecnologia nel processo, con evidente vantaggio per il sistema in termini di tempo, costi, organizzazione e persino qualità della vita. Il presupposto è che tale modalità diventi facilmente fruibile anche a distanza da parte di tuti gli operatori di giustizia e le parti del giudizio. Altro aspetto essenziale da definire sarà infatti la possibilità di coordinare tale modalità con il processo telematico a distanza, in postazioni fisiche diverse dai Tribunali (aspetto che non sembra attualmente adeguatamente sviluppato per magistrati e cancellieri). E’ pertanto auspicabile che tale strumento venga adeguatamente disciplinato e possa diventare anche un valido ausilio, quale modalità alternativa di svolgimento fisico delle udienze anche in un’eventuale fase non emergenziale.

Avv. Federico Donini

pubblicato il 08.04.2020 su Diritto.it – Quotidiano di informazione giuridica, all’indirizzo:

Il disegno di legge 735/2018 (ddl “Pillon”) in materia di affido minori: prospettive e criticità

Il principio fondamentale da salvaguardare, sulla base di quanto stabilito da convenzioni internazionali (convenzione di Strasburgo del 25.01.1996 ed ancora prima dalla convenzione di New York del 20.11.1989), recepite nel nostro ordinamento, è l’interesse del minore in tutte le procedure che lo vedono coinvolto. In tutte le procedure che riguardano i minori il “focus” va dunque spostato dal conflitto della coppia genitoriale direttamente al minore come centro autonomo di interessi meritevoli di tutela, tenendo distinte le questioni relazionali da quelle patrimoniali.

Partendo da tale presupposto ed entrando nel merito del Disegno di Legge n. 735/2018 si rilevano alcune criticità.

Nella relazione introduttiva al Disegno di Legge n. 735/2018 (cosiddetto “disegno di legge Pillon”) si dichiara espressamente che una delle finalità principali è il contrasto all’alienazione genitoriale, nonché l’introduzione della mediazione civile, obbligatoria, per le questioni in cui siano coinvolti i figli minorenni.

Analizzando nel dettaglio le singole proposte di modifica, si rileva quanto segue:

  • Sulla Mediazione: può essere utile introdurre il percorso di mediazione nelle procedure giudiziali di separazione e divorzio, finalizzato ad attenuare le forti tensioni emotive tra i genitori, che nei procedimenti giudiziali si acuiscono impedendo valutazioni razionali nell’interesse dei figli.  Sussiste tuttavia una forte perplessità sul principio per cui la mediazione diventi condizione di procedibilità. La celerità nelle procedure di famiglia è essenziale per evitare che il processo sia una cassa di risonanza del conflitto. E’ pertanto da valutare che il percorso di mediazione non sia uno “step” obbligatorio o, comunque, che lo diventi solamente dopo la prima udienza presidenziale e prima della fase istruttoria, qualora, nella fase presidenziale il percorso giudiziale non sia stato trasformato in consensuale, definendo la vertenza giudiziaria. Si consentirebbe infatti così al giudice di emanare i provvedimenti provvisori, quanto meno sulle questioni patrimoniali, al fine di dirimere, nell’immediato, una parte del conflitto, demandando ad un professionista l’intervento sugli aspetti relazionali nell’interesse dei figli.

 

  • Sulla tutela degli interessi dei nonni: l’intervento “ad adiuvandum” dei nonni nei procedimenti giudiziari rischia di alimentare il conflitto anziché attenuarlo. Gli stessi infatti, interverrebbero nel processo in corso tra le parti, ai sensi dell’art. 105 c.p.c., per sostenere le ragioni di ciascuna parte, l’una contro l’altra. Peraltro gli ascendenti hanno già la possibilità di porre in essere iniziative giudiziarie autonome, per garantire rapporti significativi con i nipoti, come stabilito dall’art. 317 bis c.c., per i procedimenti davanti al Tribunale per i Minorenni. Si rischierebbe, in questo modo, una sovrapposizione di procedure a scapito del principio dell’economia processuale. La formulazione degli artt. 1 e 8 del DDL 768 del 07.08.2018, da cui si ricava espressamente che gli ascendenti possono proporre un’azione autonoma innanzi al Tribunale Ordinario per far valere le proprie ragioni, determinerebbe peraltro l’abrogazione dell’art. 317 bis c.c., attualmente non prevista.

 

  • Sul coordinatore genitoriale: tale figura può essere utile, se richiesta dalle parti come alternativa al Giudice Tutelare, che svolge già funzione di monitoraggio sull’adempimento dei provvedimenti giudiziari di famiglia (art. 337 c.c.). Si potrebbe valutare di specificare meglio i ruoli di entrambi gli organi, uniformando le tipologie di intervento concreto.

 

  • Sulla soluzione delle controversie in caso di inadempienze o violazioni: all’art. 9 del DDL 735/18 (correlato all’art. 18 – “ulteriori contenuti dell’ordine di protezione”) si introduce il potere d’ufficio del Giudice Ordinario di pronunciare la decadenza dalla responsabilità genitoriale nelle procedure di cui agli artt. 709 ter e 710 c.p.c.. La competenza sui provvedimenti ablativi della responsabilità genitoriale è tuttavia oggi attribuita al Tribunale per i Minorenni, ai sensi dell’art 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile, nell’ambito di procedure specifiche (art. 330 c.c., Legge sull’adozione n 184/1983). In tali procedimenti l’iniziativa è sempre su domanda di parte o, per quanto riguarda le procedure di adottabilità, del Pubblico Ministero. A fondamento della pronuncia di decadenza c’è un lungo iter di accertamento della capacità genitoriale che prevede l’intervento dei Servizi Sociali e/o di specialisti, con eventuale fase di CTU (consulenza tecnica d’ufficio). Qualora si intendesse attribuire un potere d’ufficio così ampio al Giudice ordinario è opportuno specificare:
  • a livello processuale, l’oggetto delle procedure che lo giustificano;
  • a livello sostanziale, gli strumenti di cui lo stesso può disporre per effettuare i dovuti accertamenti sui genitori.

 

  • Sui tempi di permanenza paritetici presso entrambi i genitori – mantenimento diretto dei figli: pur condividendo in astratto il principio espresso all’art. 11 del DDL 735/18, se ne riscontrano alcune difficoltà attuative determinate da problemi concreti come:
  1. Ipotesi di eccessiva distanza tra le abitazioni dei genitori (comporta una difficoltà di gestione di tutte le attività del minore scolastiche e parascolastiche);
  2. età del minore (per i neonati in allattamento e i minori di età inferiore ai tre anni);
  3. impossibilità di individuare un centro prevalente degli interessi del minore che renda più agevole la sua quotidianità (sport, attività scolastiche e parascolastiche, rapporti con i coetanei).A tal fine è intervenuta un’ordinanza della Corte di Cassazione (n. 31902 del 24.10.18) che ha sancito come il principio della bigenitorialità vada interpretato nel diritto di ciascun genitore ad essere presente in maniera significativa nella vita del figlio, nel reciproco interesse, escludendo tuttavia la ripartizione matematica in termini di parità di tempi di frequentazione del minore. Ciò non escluderebbe la possibilità di prevedere forme di mantenimento diretto da parte di entrambi i genitori, che però devono essere dettagliate nel provvedimento del Giudice, sulla base della capacità patrimoniale di ciascuno. La previsione per cui (art. 11, co 7, del DDL n. 735/18), in mancanza di accordo tra le parti, il Giudice dispone il contributo di ciascuno, sul presupposto: “del costo medio dei beni e servizi per i figli, individuato su base locale in ragione del costo medio della vita e calcolato dall’ISTAT”, è contraria all’attuale formulazione dell’art. 316 bis c.c., in attuazione dell’art. 30 della Costituzione. E’ condivisibile la necessità del doppio domicilio ai fini delle comunicazioni scolastiche amministrative e relative alla salute. Ma è scarsamente attuabile una duplice abitazione nell’interesse della stabilità, del centro di interessi e della vita sociale del minore.
  • Sull’affido esclusivo – affido eterofamiliare: in relazione all’art. 12 del DDL n. 735/18 è opportuno specificare cosa si intenda con l’espressione per cui: “l’affidamento sia contrario all’interesse del minore”. Si rischia infatti una sovrapposizione con l’art. 333 c.c. che prevede limitazioni della responsabilità genitoriali in caso di condotta pregiudizievole di uno dei genitori nei confronti del figlio. La nuova formulazione dell’art. 337 quater, I° co., c.c., di cui all’art. 2 del DDL n. 768 del 07.08.2018, specifica nel dettaglio i casi. Permane tuttavia, anche in questo caso, il rischio di sovrapposizione con il dettato normativo di cui all’art. 333 c.c..
  • Nel caso di affido eterofamiliare è evidente il conflitto di interessi del figlio con entrambi i genitori, si ritiene pertanto essenziale, che il Giudice disponga la nomina di un curatore speciale, difensore del minore, così come sancito e ribadito più volte dalle convenzioni internazionali recepite dal nostro ordinamento. E’ inoltre importante specificare in tali casi se sussistano in capo al Giudice poteri limitativi dell’esercizio della responsabilità genitoriale. In tale ipotesi il Giudice dovrà specificare quale soggetto sia legittimato all’esercizio della responsabilità genitoriale in sostituzione dei genitori.
  • Sull’abrogazione dell’art. 570 bis c.p.: Nella relazione introduttiva (DDL n. 735/18 pag. 8) si rileva che l’abrogazione di tale articolo è una logica conseguenza del mantenimento diretto. La lettera della norma riguarda tuttavia ogni tipologia di assegno dovuto in caso di separazione o divorzio o violazione di obblighi di natura economica. La previsione è dunque molto più ampia del limitato contributo al mantenimento dei figli. Si ritiene che in merito agli obblighi derivanti da tali provvedimenti giudiziari, siano invece necessari forti deterrenti, per garantirne in concreto l’adempimento in capo ad entrambi i genitori. 
  • Sulla separazione consensuale ed il divorzio congiunto: gli articoli 10 e 21, co. 18, del DDL n. 735/18 prevedono che il Presidente debba riscontrare il mancato svolgimento di un preliminare tentativo di conciliazione dei coniugi. Non è tuttavia chiaro davanti a chi dovrebbe essere svolto tale tentativo di conciliazione in via preliminare.

Infine si rileva la mancanza di previsioni in merito ad altrettante importanti tematiche:

  1. la necessità della previsione di un autonomo e più celere procedimento esecutivo per l’adempimento degli obblighi scaturenti dai provvedimenti giudiziari in materia di famiglia, con la previsione di sanzioni effettive;
  2. la necessità di un chiarimento in merito all’applicazione o meno di tale impianto normativo anche alle procedure di negoziazione assistita, che si svolgono fuori dalle aule giudiziarie, specificandone le modalità;
  3. la necessità di un unico rito processuale davanti ad unico Tribunale per tutti i procedimenti di diritto di famiglia, al fine di garantire soluzioni efficaci. La frammentazione delle competenze è contro il principio di economia processuale e determina inevitabilmente la dispersione di risorse.

Avv. Simona Pettinato

pubblicato il 01.02.2019 su Diritto.it – Quotidiano di informazione giuridica, all’indirizzo:

https://www.diritto.it/il-disegno-di-legge-735-2018-ddl-pillon-in-materia-di-affido-minori-prospettive-e-criticita/

“Negatoria servitutis” e procedimento possessorio: autonomia o connessione?

Dottrina e giurisprudenza hanno sancito il principio per cui i provvedimenti possessori hanno carattere puramente incidentale, essendo destinati a venire assorbiti dall’eventuale successiva sentenza definitiva sulla controversia petitoria, unico titolo idoneo a regolare, in via definitiva, i rapporti di natura possessoria e/o petitoria in contestazione tra le parti. Da ciò deriva che la parte vincitrice nel giudizio possessorio non potrà, durante la pendenza del giudizio petitorio, invocare i provvedimenti a sé favorevoli, assunti dal giudicante nel procedimento possessorio. Così neppure si potrà far riferimento alle argomentazioni o circostanze desunte in quella sede, per la diversità di presupposti che regolano le due azioni (possessoria e petitoria), avendo la prima il fine della tutela di una situazione o potere di fatto e la seconda l’accertamento di un diritto.

La Corte di Cassazione ha infatti sancito che: “le azioni proposte, rispettivamente, in sede possessoria e petitoria, pur nell’eventuale identità soggettiva, sono caratterizzate dall’assoluta diversità degli altri elementi costitutivi (causa petendi e petitum); ne consegue che nel giudizio petitorio non possono essere invocati i provvedimenti emessi in sede possessoria, né le argomentazioni e le circostanze risultanti dalla sentenza che ha definito quel giudizio, giacché queste ultime hanno rilievo solo in quanto si trovino in connessione logica e causale con la decisione in sede possessoria, e perciò, lasciando impregiudicata ogni questione, sulla legittimità della situazione oggetto della tutela possessoria, non possono influire sull’esito del giudizio petitorio (C. Cass civ. n. 14689/01; in senso conforme C. Cass civ. n. 7747/99; C. Cass civ. n. 360/95 – C. Cass civ. n. 13450/16).

Rientra fra le azioni petitorie di accertamento negativo la “negatoria servitutis”. Ai sensi dell’art. 949, I° comma, c.c.: “Il proprietario può agire per far dichiarare l’inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, quando ha motivo di temerne pregiudizio”. L’interesse ad esperire l’azione sussiste laddove il convenuto, con azioni concrete, determini una situazione di incertezza circa l’esistenza o meno di un diritto di servitù a vantaggio del proprio fondo (Cass. Civ., Sez. II, 03/11/2000, n. 14348). L’interesse ad agire in negatoria servitutis sussiste anche quando, pur non denunciandosi l’avvenuto esercizio di atti materiali lesivi della proprietà, a fronte di pretese reali affermate dalla controparte, si intenda far chiarezza con l’accertamento dell’infondatezza delle pretese (Cass. Civ. n. 5569/2010). Quindi anche nell’ipotesi della presenza di un provvedimento derivante da un giudizio possessorio.

Il vantaggio della negatoria servitutis è duplice. Da un lato l’attore non ha l’onere di fornire, come nell’azione di rivendica, la prova rigorosa della proprietà, neppure quando abbia chiesto la cessazione della situazione antigiuridica posta in essere dall’altra parte (essendo sufficiente la dimostrazione, anche in via presuntiva, di possedere il fondo in forza di un titolo valido), dall’altro il convenuto ha l’onere di provare l’esistenza del diritto a lui spettante in forza di eccezione o domanda riconvenzionale.

Il convenuto nel procedimento petitorio, vittorioso nel procedimento possessorio, non potrà tuttavia invocare le prove assunte in tale sede. Ciò in coerenza con la diversità di presupposti delle due azioni, come già specificato (Cass. Civ. n. 5732/94; in senso conforme Cass. Civ. n. 7556/86).

Un profilo problematico è quello relativo all’esecuzione della sentenza di accertamento negativo del diritto spettante al convenuto, in favore dell’attore, in contrasto con l’esito di un precedente, ma autonomo, procedimento possessorio favorevole al convenuto. La sentenza emessa in sede petitoria è di per sé idonea a sovvertire l’eventuale esito del precedente procedimento possessorio. Tuttavia la disciplina dell’esecuzione provvisoria di cui all’art. 282 c.p.c., trova legittima attuazione soltanto con riferimento alle sentenze di condanna, le uniche idonee, per loro natura, a costituire titolo esecutivo. Infatti le sentenze di accertamento non hanno l’idoneità, con riferimento all’art. 282 c.p.c., ad avere efficacia anticipata rispetto al momento del passaggio in giudicato (Cassazione civile, sez. III°, 20 febbraio 2018).

C’è chi ha sostenuto l’inidoneità della sentenza di accertamento negativo della servitù di “neutralizzare” l’esito della pronuncia possessoria, sino al passaggio in giudicato (Trib. di Napoli 23.04.2002) e chi, diversamente, ha ritenuto che, nonostante la natura dichiarativa della statuizione relativa alla negatoria servitutis, essa contenga anche in sè una pronuncia di condanna, dotata di una sua autonomia e di un connotato proprio che non è puramente dichiarativo e, pertanto, tale capo debba essere ritenuto provvisoriamente esecutivo ex art. 282 c.p.c. (Tribunale di Bergamo sent. del 23.02.2007).

Ove si propendesse per il primo orientamento vi è da considerare che il passaggio in giudicato di una sentenza di accertamento negativo potrebbe anche essere posticipata in seguito ad impugnazioni della sentenza nei gradi successivi di giudizio, con potenziale pregiudizio per l’attore vittorioso in sede petitoria, ma soccombente nel precedente giudizio possessorio.

La Corte di Cassazione si è pronunciata sulla natura ed efficacia dei provvedimenti possessori assunti durante il giudizio petitorio, stabilendo che questi sono destinati a venire assorbiti dalla sentenza che definisce la controversia petitoria. Infatti: “Ai sensi dell’art. 704 cod. proc. civ., i provvedimenti possessori emessi dal giudice del petitorio, avendo carattere puramente incidentale, sono destinati a venire assorbiti dalla sentenza che, decidendo la controversia petitoria, costituisce l’unico titolo per regolare in via definitiva i rapporti di natura possessoria e petitoria in contestazione fra le parti. (Sulla base di tale principio, è stata confermata la sentenza che, nel decidere il giudizio possessorio concernente fatti avvenuti durante la pendenza del procedimento petitorio, aveva rigettato la domanda di reintegrazione, essendo stata in quella sede negata l’esistenza del diritto, in relazione al quale l’attore aveva preteso di esercitare il possesso)” (Corte di Cassazione Sez. 2, Sentenza n. 14607 del 22/06/2007).

Sembra quindi plausibile ritenere che il provvedimento possessorio derivante da altro e precedente giudizio venga poi definitivamente assorbito dal provvedimento di carattere petitorio, sebbene non passato in giudicato e suscettibile di impugnazione, venendo così meno il presupposto per invocare la tutela della situazione di fatto in sede di procedimento possessorio.

Avv. Federico Donini

pubblicato il 01.08.2018 su Diritto.it – Quotidiano di informazione giuridica – all’indirizzo:

La retroattivita’ della polizza assicurativa: problematiche inerenti la responsabilita’ civile e da illecito amministrativo

In relazione al periodo di efficacia del contratto assicurativo viene precisato dalle norme del codice civile quanto segue:

– ai sensi dell’art. 1899, comma I°, c.c. (codice civile): “L’assicurazione ha effetto dalle ore ventiquattro del giorno della conclusione del contratto, alle ore ventiquattro dell’ultimo giorno della durata stabilita nel contratto stesso”;

– ai sensi dell’art. 1901, comma I°, c.c.: “Se il contraente non paga il premio o la prima rata di premio stabilita dal contratto, l’assicurazione resta sospesa fino alle ore ventiquattro del giorno in cui il contraente paga quanto è da lui dovuto”;

– infine, ai sensi dell’art. 1901, comma II°, c.c.: “Se alle scadenze convenute il contraente non paga i premi successivi, l’assicurazione resta sospesa dalle ore ventiquattro del quindicesimo giorno dopo quello della scadenza”.

Sussiste quindi la facoltà, espressamente prevista dall’art. 1901, comma II°, c.c., di proroga automatica dell’ultimo contratto assicurativo eventualmente in essere, sino al termine massimo di 15 giorni alla data successiva alla scadenza.

La giurisprudenza ha ammesso che il contratto assicurativo possa essere retrodatato ad un momento anche antecedente rispetto a quanto stabilito dall’art. 1899 c.c., in quanto trattasi di norma derogabile. E’ possibile quindi anticipare gli effetti e specificare, pattiziamente, l’ora di decorrenza (Cass. Civ. n. 11142/1994). Non è inoltre opponibile al terzo danneggiato un certificato assicurativo formalmente valido, ma rilasciato dopo il sinistro e fraudolentemente retrodatato. In tal caso l’assicuratore, adempiuta la propria obbligazione nei confronti del terzo, avrà diritto di rivalsa nei confronti dell’intermediario infedele e di regresso nei confronti dell’assicurato (Cass. Civ. n. 6974/16; in senso contrario a tale interpretazione: Cass. Civ. n. 14410/11).

Più recentemente le sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito che le clausole “claims made”, pur comportando talvolta l’assicurazione del rischio pregresso, non entrano in contrasto con l’art. 1895 c.c., per mancanza dell’alea richiesta per il contratto di assicurazione. Infatti, non viene meno l’alea se entrambe le parti al momento della stipula non erano a conoscenza dei fatti fonte di responsabilità (Corte di cassazione, Sez. Unite, sentenza n. 9140 del 2016).

In tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore si è tuttavia precisato che la possibilità prevista all’articolo 1901, secondo comma, c.c. (ovvero la proroga automatica dell’ultimo contratto assicurativo eventualmente in essere), non è applicabile ove il pagamento sia intervenuto dopo la scadenza del periodo di tolleranza, in relazione al sinistro verificatosi il giorno stesso.

Così la Corte di Cassazione ha precisato che: “In tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore, per le scadenze successive al pagamento del primo premio (o della relativa prima rata) di cui all’articolo 1901, secondo comma, c.c., …………………..ove il premio successivo al primo sia stato pagato dopo la scadenza del periodo di tolleranza di giorni quindici di cui all’articolo 1901 c.c.. (espressamente richiamato nell’articolo 7 della legge 24 dicembre 1969, n.990), la garanzia assicurativa non è operante per il sinistro verificatosi il giorno stesso del pagamento”. (C. Cass. Civ. n. 23149/14; in senso conforme C. Cass. Civ. n. 13545/06; C. Cass. Civ. n. 3770/91).

Occorre però contemperare questa possibilità di deroga alle norme codicistiche con l’obbligo di stabilire, anche verso i terzi, un sistema certo di definizione temporale della copertura assicurativa di un veicolo assicurato.

Così l’accertamento amministrativo dell’illecito relativo ad un veicolo sprovvisto di copertura assicurativa al momento dell’accertamento, ma successivamente dotato di idonea copertura assicurativa retroattiva, anche nello stesso giorno, non potrà essere idoneo a sanare l’illecito amministrativo già consumato.

Infatti, in tema di accertamento dell’illecito amministrativo per assenza di copertura assicurativa di un autoveicolo, la Suprema Corte ha stabilito che: “l’illecito amministrativo era consumato ed è del tutto irrilevante che successivamente la rata sia stata pagata e che l’assicuratore (al quale non è attribuito il potere di estinguere un illecito amministrativo già consumato) abbia riconosciuto la copertura…….indiretta conferma di ciò si ricava anche dall’art. 193 comma 3 del codice della strada, per il quale la sanzione amministrativa di cui al comma 2 è ridotta ad un quarto quando l’assicurazione del veicolo per la responsabilità verso i terzi sia comunque resa operante nei quindici giorni successivi al termine di cui all’art. 1901 comma 2 del codice civile; la norma quindi, attribuisce una efficacia al ravvedimento del contravventore, ma entro ristretti limiti temporali e senza incidere sulla sussistenza dell’illecito, ma solo sulla misura della sanzione” (Cass. Civ. n. 21571/12).

In senso contrario si è richiamata una circolare del Ministero dell’Interno (n. 300/A del 15.05.2013) che ha stabilito la possibilità di momenti diversi di decorrenza della copertura assicurativa, anticipati rispetto alle ore 24 del giorno del pagamento del premio, da applicare in sede di controllo del certificato assicurativo. Sembra tuttavia che in quest’ultimo caso ci si riferisca alla sola disciplina civilistica e non anche a quella dell’illecito amministrativo (Tribunale di Verona sez. civ., sent. N. 1484/18). Ciò si evince anche dagli espliciti riferimenti nella circolare al codice civile e non al codice della strada, e dall’acquisizione del parere dell’IVASS (Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni).

Si ritiene infatti che, ove si ammettesse la possibilità pattizia di derogare all’ora della copertura assicurativa in relazione ad un illecito amministrativo già consumato, si legittimerebbe un ingiusto “escamotage” per eludere l’obbligo di copertura assicurativa, con conseguenti situazioni di estrema incertezza per gli organi pubblici di controllo.

In definitiva se da un lato è ammessa la deroga all’art. 1899 c.c. sul termine di decorrenza del contratto, su espressa e concorde volontà delle parti, così come, entro determinati limiti, l’assicurazione del rischio pregresso, dall’altro non sembra possibile allargare tale principio al legittimo affidamento dei terzi sullo stato dei fatti presente al momento dell’accertamento dell’illecito amministrativo.

Avv. Federico Donini

pubblicato il 01.08.2018 su Altalex – Quotidiano di informazione giuridica – all’indirizzo: http://www.altalex.com/documents/news/2018/07/24/retroattivita-della-polizza-e-problemi-sulla-responsabilita-da-illecito-amministrativo

Il curatore speciale: aspetti normativi e giurisprudenziali tra luci ed ombre

L’idea di questo contributo, senza alcuna pretesa scientifica, trae spunto da esperienze professionali condivise, nell’ambito della difesa giudiziale degli interessi dei minori, per stimolare una riflessione ed aprire uno spiraglio di confronto tra le diverse professionalità che operano, a vario titolo, a favore della loro tutela.

L’intento è, inoltre, quello di prestare conforto a tutti coloro che decidono di dedicare una parte della loro professione nel dar voce a tutti quei bambini, adolescenti, privi del sostegno di un ambiente familiare idoneo, o strumenti inconsapevoli di dinamiche familiari complesse, dominate da tensioni emotive incontrollate.

Il nostro ordinamento giuridico prevede, in modo più o meno frastagliato, una figura professionale preposta a rappresentare un non meglio precisato interesse del minore che lo vedono coinvolto nelle procedure giudiziarie civili. Nel panorama normativo si prevede, talora, la partecipazione del curatore speciale del minore nel processo, ma null’altro viene specificato su ruolo, competenze, funzioni.

La nomina di curatore speciale giunge dal Tribunale, spesso, sulla base di criteri ancora imprecisi, in quanto non sussistono dei requisiti di legge per l’assunzione di tali incarichi. All’atto dell’assunzione dell’incarico sorgono molti dubbi e gli approfondimenti legislativi e giurisprudenziali non sono di gran supporto.

Sussistono infatti diversi riferimenti normativi, nella Costituzione, nel codice civile, nel codice di procedura civile, nella legge sull’adozione, nelle convenzioni internazionali di New York del 1989 e di Strasburgo del 1996. Non sussiste, tuttavia una disciplina organica uniforme e chiara in relazione alle funzioni concrete ed al ruolo di questa figura.

Le norme di riferimento possono essere così sintetizzate per ambito di competenza:

Nelle convenzioni internazionali, segnatamente quella di New York (1989) e quella di Strasburgo (1996), è sancito il principio per cui il minore deve considerarsi un soggetto di diritto autonomo anche alla luce di quanto stabilito dall’art.111 della Costituzione, che disciplina il principio del c.d. giusto processo. Il principale riferimento si trova nella Convenzione di Strasburgo (ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 20 marzo 2003, n. 77):

gli artt. 4 e 9 sanciscono il diritto del minore di avere un suo rappresentante all’interno del processo che lo riguarda, qualora vi sia conflitto di interessi con i genitori.

l’articolo 10, comma 1, specifica le funzioni del rappresentante:

“Nei procedimenti dinanzi ad un’autorità giudiziaria riguardanti un minore, il rappresentante deve,

a meno che non sia manifestamente contrario agli interessi superiori del minore:

  1. a) fornire al minore ogni informazione pertinente, se il diritto interno ritenga che abbia una capacità

di discernimento sufficiente;

  1. b) fornire al minore, se il diritto interno ritenga che abbia una capaciti di discernimento sufficiente, spiegazioni relative alle eventuali conseguenze che l’opinione del minore comporterebbe nella pratica, e alle eventuali conseguenze di qualunque azione del rappresentante;
  2. c) rendersi edotto dell’opinione del minore e portarla a conoscenza dell’autorità giudiziaria.
  3. Le Parti esaminano la possibilità di estendere le disposizioni del paragrafo 1 ai detentori delle responsabilità genitoriali”.

Nella Relazione di accompagnamento alla Convenzione di Strasburgo del 1996, a proposito dei compiti di cui all’art. 10, si specifica che questa previsione impone al rappresentante di un minore di agire in modo “appropriato”, soprattutto fornendogli le informazioni e le spiegazioni, mettendolo in grado di esercitare i suoi diritti, determinando la sua opinione e portandola a conoscenza dell’autorità giudiziaria.

Il rappresentante può essere un avvocato nominato per agire davanti a un’autorità giudiziaria, in nome e per conto del minore.

 

Nell’ambito dell’ordinamento interno si possono individuare i seguenti riferimenti normativi:

  • piano processuale: gli artt. 75 – 77 – 78 c.p.c. disciplinano l’ipotesi in cui debba farsi valere in giudizio il diritto di un soggetto incapace. Quest’ultimo sarà tutelato giudizialmente per il tramite di un suo rappresentante che, per il minore, è di regola il genitore (ovvero il tutore), in assenza o in caso di conflitto di interessi, il curatore speciale.
  • piano sostanziale: gli artt. 84, 243 bis, 247, 249, 356, 263, 264., 279, 320,321, 360, 392, c.c. e l’art. 8 legge n. 184/83. Si tratta di norme specifiche sul diritto che si vuol far valere in giudizio, ma molto generiche sulla figura del curatore speciale.L’art. 320 c.c. prevede, con riguardo alla disciplina della rappresentanza spettante ai genitori, che “ove sorga un conflitto di interesse patrimoniale” il Giudice Tutelare nomina ai figli un curatore speciale. Ai sensi dell’art. 321 c.c., nei casi in cui i genitori non possono o non vogliono compiere uno o più atti di interesse del figlio, eccedenti l’ordinaria amministrazione, il curatore speciale è nominato dal Giudice tutelare, per il compimento di uno o più determinati atti, rispetto ai quali sia ravvisabile un conflitto di interessi tra minore e rappresentante.In alcuna di queste norme è specificato se il curatore speciale debba essere un avvocato e le funzioni allo stesso attribuite. L’affido di tali incarichi ad un avvocato avviene solamente per prassi dei Tribunali. Solo in questo caso si parla di difensore del minore, ma non è specificato se il minore sia o meno parte del giudizio. 
  • Dal punto di vista dell’indagine giurisprudenziale i precedenti più significativi si sono susseguiti soprattutto nell’ambito delle procedure di adottabilità e in quelle “de potestate”, come di seguito indicate.
  • Solo l’art. 8, comma 4, della legge n. 184/83, sancisce, nelle procedure di adottabilità, la nomina di ufficio del curatore speciale/difensore del minore da parte del Tribunale: “il procedimento di adottabilità deve svolgersi fin dall’inizio con l’assistenza legale del minore e dei genitori”.
  • L’art. 360 c,c, prevede che, ove anche il protutore, cui spetta la rappresentanza in caso di opposizione di interessi con il minore, si trovi nella stessa situazione di conflitto di interessi, il Giudice Tutelare nomini un curatore speciale.
  • Ai sensi degli articoli 243 bis e seguenti del codice civile, ad esempio, nell’azione di disconoscimento della paternità, la nomina del curatore speciale è prevista in ragione del sotteso conflitto di interessi. La nomina si rende necessaria per la valida instaurazione del contraddittorio, quando la madre del minore o il padre, intendono esercitare l’azione di disconoscimento di paternità. Lo stesso principio vale in genere nelle azioni di stato: azione di contestazione dello stato di figlio nato nel matrimonio (art. 248 c.c.), azione di reclamo dello stato di figlio nato nel matrimonio (art. 249 c.c.), riconoscimento tardivo del figlio, azione di impugnazione del riconoscimento del figlio (artt. 263 e 264 c.c.), autorizzazione a contrarre matrimonio (art. 84 c.c.).
  • Corte di Cassazione civ. 19 maggio 2010 n. 12290. 
  • Nelle procedure di adottabilità la nomina del curatore speciale è necessaria se non c’è un tutore o se questi si trovi in una situazione di conflitto di interessi con il minorenne.
  • Corte di Cassazione civ. (n.ri 3804/10 e 3805/10 e n. 7281/2010): queste sentenze hanno configurato la rappresentanza del minore nel procedimento di adottabilità secondo i seguenti principi:- se il tutore non è nominato, o si trova in conflitto di interessi con il minore, sarà nominato un curatore; sarà questi a rappresentare il minore nel processo e a essere difeso – nella qualità – da un avvocato, assicurando al minore sin dall’inizio la difesa tecnica prevista dall’art. 8 l. 184/1983 come modificata dalla l. 149/2001;- se il rappresentante del minore (tutore o curatore che sia) non nomina un difensore tecnico al minore, provvede il giudice a nominargli d’ufficio un avvocato.Tale compito particolarmente rilevante merita di essere considerato sotto il profilo deontologico, etico e della responsabilità sociale.-Corte di Cassazione civ. n. 5097/2014
  •  
  • In ogni caso, l’avvocato che espleta sia il ruolo di rappresentante (tutore o curatore) sia quello di difensore tecnico, ha una duplice funzione particolarmente delicata in ragione dell’altissimo profilo costituzionale dei diritti che nel procedimento di adottabilità sono oggetto di provvedimento: artt. 2 e 30 Cost.
  • – sia il tutore sia il curatore possono essere avvocati; in ogni caso le funzioni di rappresentanza e di difesa tecnica restano diverse anche se espletate dalla stessa persona;
  • – se è nominato un tutore – e questi non è in conflitto di interesse con il minore – sarà questi a rappresentarlo nel processo e a essere difeso – nella qualità – da un avvocato, assicurando così al minore sin dall’inizio la difesa tecnica, prevista dall’art. 8 l. n. 184/1983, come modificata dalla l. n. 149/2001;

Tale sentenza rileva come sia errato ritenere che il minore non sia parte del processo in quanto la sua partecipazione al giudizio avviene mediante il suo rappresentante legale e, in caso di conflitto di interesse, a mezzo del curatore speciale (cfr. Cass. civ., sezione I, n. 3804 del 17 febbraio 2010).

E’ ravvisabile un conflitto d’interessi tra chi e’ incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale (nella specie, figlio minore e genitore), ogni volta che l’incompatibilità delle rispettive posizioni è anche solo potenziale, a prescindere dalla sua effettività; ne consegue che la relativa verifica va compiuta in astratto ed ex-ante secondo l’oggettiva consistenza della materia del contendere dedotta in giudizio, anzichè in concreto ed a posteriori alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa. Pertanto, in caso di omessa nomina di un curatore speciale, il giudizio è nullo per vizio di costituzione del rapporto processuale e per violazione del principio del contraddittorio (cfr. Cass. civ., sezione II°, n. 13507 del 16 settembre 2002).

 

Corte di Cassazione n. 11782/2016

 

Tale sentenza ha sancito la necessità di un legale del minore nella procedura di adottabilità, che ne assuma la difesa tecnica, con conseguente nullità del procedimento, in caso di mancata nomina per violazione del principio del contraddittorio, che va rispettato anche nei confronti del minore.

 

Le questioni analizzate dalla Suprema Corte sono relative alla rappresentanza del minore in giudizio come parte processuale, oltre che sostanziale, ma ancora una volta non vengono specificate ruolo e funzioni.

Dall’analisi dell’impianto normativo, emerge una disomogeneità del ruolo, scarsa chiarezza delle funzioni, un’assoluta indifferenza rispetto alle competenze richieste. Anche gli approfondimenti giurisprudenziali non aiutano, essendo l’orientamento della Suprema Corte ancora in fase di consolidamento. Infine non sembrano sussistere neppure albori di progetti legislativi futuri.

 

Ciò che appare comunque evidente è che l’ordinamento giuridico nazionale e internazionale ritiene ormai pacifico il principio della tutela dell’interesse del minore nelle procedure giudiziali che lo vedono, suo malgrado, protagonista. Tale principio, sancito anche nelle linee guida del Consiglio d’Europa nel 2010 (“Per una separazione dei genitori a misura dei minori”) è oggi una pietra miliare. Può dunque rappresentare il punto di partenza per lo svolgimento dell’incarico professionale assunto, unitamente alla formazione tecnica ed all’esperienza professionale, se acquisita. L’amara constatazione è che la tutela di questo interesse è, oggi, attuata solo attraverso le prassi giudiziarie ed eventuali protocolli, applicati nei vari Tribunali e grazie alle competenze tecniche specifiche dei diversi operatori (magistrati, servizi sociali ed avvocati) che, ciascuno con la propria professionalità, si adoperano per renderlo effettivo. Ciò comporta tuttavia che la modalità di intervento del curatore speciale nei processi che coinvolgono i minori siano differenti nei diversi Tribunali italiani, a seconda delle diverse prassi ivi condivise, con il rischio di rendere scarsamente efficaci alcuni incarichi. Urge un intervento legislativo che disciplini questa figura professionale in modo organico ed uniforme. Anche attraverso l’espressa specificazione del suo ruolo e delle sue funzioni dentro il processo e nei rapporti con gli altri operatori, può attuarsi la tutela dell’interesse del minore, definendo in modo efficace i suoi diritti nel giudizio.

 

Avv. Simona Pettinato                                                                                 Avv. Rossana Greco

pubblicato il 04.07.2018 su Diritto.it – Quotidiano di informazione giuridica – all’indirizzo

 

L’applicazione del principio del cumulo giuridico alle violazioni del codice della strada: l’articolo 198 del codice della strada

L’Art. 198 del Codice della Strada (D.Lgs. n. 285/92 e successive modifiche) stabilisce il principio del cumulo giuridico delle sanzioni amministrative pecuniarie, ove con una sola azione od omissione vengano violate diverse disposizioni di legge o vengano effettuate più violazioni della stessa disposizione.

Il primo comma dell’art. 198 c.d.s. stabilisce infatti: “salvo che sia diversamente stabilito dalla legge, chi con una azione od omissione viola diverse disposizioni che prevedono sanzioni amministrative pecuniarie, o commette più violazioni della stessa disposizione, soggiace alla sanzione prevista per la violazione più grave aumentata fino al triplo.

Tale disposizione estende al settore delle sanzioni amministrative il sistema del cumulo giuridico, tipizzato in sede penale, con la limitazione che tale disciplina non è applicabile nei casi di plurime violazioni commesse con altrettante condotte (Cass. Civ. n. 5252/2011; Cass. Civ. n. 24655/2008). Agli illeciti amministrativi non si applica quindi la continuazione, così come disciplinata dall’art. 81 del codice penale.

La Corte di Cassazione ha infatti ribadito che: “in materia di sanzioni amministrative, non e’ applicabile, allorche’ siano poste in essere inequivocabilmente (Corte Cost. 14/2007) piu’ condotte realizzatrici della medesima violazione, l’art. 81 cod. pen. relativo alla continuazione, ma esclusivamente il concorso formale, in quanto espressamente previsto nell’art. 8 legge 689/81, che richiede l’unicità dell’azione od omissione produttiva della pluralita’ di violazioni” (C. Cass. Civ. n. 26434/14).

L’applicazione dell’art. 198, 1° comma, c.d.s., deve essere interpretata rigorosamente e non può allargare le maglie all’istituto della continuazione.

La Corte di Cassazione ha stabilito altresì che: “in tema di sanzioni amministrative relative alla circolazione stradale, ove venga commessa, con una sola azione o omissione, la violazione di diverse disposizioni del codice della strada, a ciascuna delle quali consegua la decurtazione dei punti dalla patente di guida, non opera il meccanismo previsto dall’art. 198, comma primo, di detto codice” (Cass. Civ. n. 3940/2012).

In materia di pubblicità, si può prevedere sia l’applicazione dell’art. 23 c.d.s., che vieta l’affissione pubblicitaria non autorizzata sulle strade, sia dell’art. 25 c.d.s. avente per oggetto l’occupazione non autorizzata della proprietà stradale. Gli interessi tutelati sono in questo caso diversi, pertanto la previsione di cui all’art. 25 c.d.s. non può ritenersi assorbita in quella di cui all’art. 23. Quindi un impianto pubblicitario, collocato sul suolo pubblico, privo di ogni autorizzazione, viola entrambe le disposizioni, che possono essere legittimamente applicate in modo concorrente (Cass. Civ. n. 5412/07). Non è possibile neppure in questo caso ipotizzare il cumulo giuridico e applicare l’art. 198, 1° co., c.d.s..

Viene così delineato un quadro giurisprudenziale in cui l’art. 198 , 1° co., c.d.s. va applicato limitatamente a quelle situazioni in cui sia effettivamente accertato, anche mediante prova indiziaria o presuntiva, l’unicità della condotta del trasgressore in rapporto alla violazione della medesima norma. Nell’istruttoria mirata all’accertamento della condotta del trasgressore l’elemento della temporalità delle azioni (prolungate o interrotte) e della pluralità (o meno) dei luoghi, in cui vengono commesse le violazioni, giocheranno un ruolo fondamentale nello stabilire se il trasgressore abbia: “posto in essere inequivocabilmente piu’ condotte realizzatrici della medesima violazione.”

In termini generali, l’onere della prova degli elementi costitutivi dell’illecito amministrativo grava sull’Amministrazione (C. Cass. Civ. n. 4898/2015). L’ente accertatore può tuttavia anche non essere presente al momento dell’infrazione, come nel caso delle affissioni pubblicitarie non autorizzate. L’onere di dimostrare i presupposti di applicazione del disposto di cui all’art. 198 , 1° co., c.d.s. graverà quindi su chi introduce, con la relativa azione, la richiesta di applicazione del cumulo giuridico. Tale interpretazione è avallata dalla circolare del Ministero dell’interno del 17/11/2003, che riporta al trasgressore la facoltà di richiedere l’applicazione dell’art. 198 c.d.s.: “l‘organo di polizia stradale dovrà contestare le singole violazioni, indicando per ciascuna infrazione la relativa sanzione, salva la facoltà per il trasgressore di richiedere successivamente al Prefetto l’applicazione dell’art 198 C.d.S., in caso di concorso formale.”

Occorre infine evidenziare che, invocando l’applicazione dell’art 198, I° co., c.d.s. (sanzione prevista per la violazione più grave aumentata sino al triplo), potrebbe, in alcuni casi, risultare anche disciplina meno favorevole rispetto a quella relativa alla sanzione già applicata dall’amministrazione, determinando così un margine di incertezza nella richiesta. La forbice tra il minimo ed il massimo edittale della sanzione aumentata sino al triplo, potrebbe portare a sanzioni maggiori di quelle già applicate o comunque condurre allo stesso risultato di partenza, senza l’applicazione del cumulo giuridico. Spetterà in questo caso all’autorità giudicante rideterminare la sanzione, in applicazione dell’art. 198, I° co., c.d.s., anche in rapporto alle valutazioni effettuate sulla gravità dell’infrazione commessa, così come emerso nel corso del giudizio.

Un’interpretazione rigorosa dell’art. 198 del c.d.s. è confermata anche dal tenore letterale del secondo comma secondo cui: “in deroga a quanto disposto nel comma 1, nell’ambito delle aree pedonali urbane e nelle zone a traffico limitato, il trasgressore ai divieti di accesso e agli altri singoli obblighi e divieti o limitazioni soggiace alle sanzioni previste per ogni singola violazione”.

Sul secondo comma dell’art. 198 c.d.s., che deroga al principio del cumulo giuridico in relazione a determinate fattispecie (aree urbane e zone a traffico limitato), è stata sollevata più di una questione di legittimità costituzionale. Ne è scaturita un’ordinanza interpretativa della Corte Costituzionale secondo cui: “non ad ogni accertamento deve necessariamente corrispondere una contravvenzione, trattandosi di condotta di durata” (C. Cost. ordinanza n. 14/2007). Ci si riferisce, in particolare, alle violazioni commesse all’interno delle zone ZTL, in ipotesi di contravvenzioni elevate a distanza di un brevissimo lasso di tempo (nel caso di specie, in cui è stata sottoposto alla Corte il vaglio di costituzionalità della norma, si trattava di violazioni commesse a distanza di 31 secondi l’una dall’altra).

Ribadita l’inapplicabilità dell’istituto della continuazione da parte della Corte di Cassazione (C. Cass. Civ. n. 26434/14), tale ordinanza può forse essere diretta a distinguere solamente quelle peculiari fattispecie in cui sussista un brevissimo lasso temporale tra un’azione e l’altra, da quelle ipotesi in cui, diversamente, le violazioni vengono rilevate con un maggiore margine temporale o addirittura in luoghi diversi.

Avv. Federico Donini

Pubblicato il 19.03.2018 su Altalex – Quotidiano di informazione giuridica – all’indirizzo:  http://www.altalex.com/documents/news/2018/03/13/cumulo-giuridico-violazioni-codice-della-strada

Pubblicato il 20.03.2018 su Diritto & Diritti – Rivista giuridica elettronica, pubblicata su Internet all’indirizzo: https://www.diritto.it/lapplicazione-del-principio-del-cumulo-giuridico-alle-violazioni-del-codice-della-strada/

La chiamata in causa del terzo da parte dell’attore e l’intervento del terzo per ordine del giudice: interferenze e limiti

L’art. 269, 3°comma, c.p.c. stabilisce che, ove l’attore abbia interesse a chiamare in causa un terzo a seguito delle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta, ha l’onere, espressamente sanzionato a pena di decadenza, di chiederne l’autorizzazione al giudice nella prima udienza di trattazione.

Il giudice istruttore che autorizzi la chiamata in causa del terzo fissa una nuova udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo, nel rispetto dei termini di cui all’art. 163 bis c.p.c..

La richiesta di chiamata in causa di terzo non può tuttavia essere formulata, né autorizzata dal giudice, dopo la prima udienza. Ciò neppure nell’ipotesi in cui l’interesse alla chiamata sia sorto successivamente a tale momento. La violazione del termine è rilevabile d’ufficio e non sanabile dalla costituzione del terzo chiamato, il quale non accetti il contraddittorio nello stato in cui si trova la causa. Tale rigorosa interpretazione è stata ribadita dalla giurisprudenza della Suprema Corte. Infatti: “La chiamata in causa del terzo non puo’ dall’attore essere richiesta, ne’ autorizzata dal giudice, dopo la prima udienza; e cio’ nemmeno nell’ipotesi in cui l’interesse alla chiamata sia sorto successivamente a tale momento. La violazione del termine in oggetto e’ stato ritenuto rilevabile d’ufficio e non sanabile dalla costituzione del terzo chiamato il quale non accetti il contraddittorio nello stato in cui si trova la causa” (cfr. Cass. Civ. 19 ottobre 2015, n. 21088; in senso conforme Cass. Civ. n. 10682/08, Cass. Civ. n. 10682/08; n. 6092/00).

In senso contrario ad un’interpretazione rigorosa dell’art. 269, comma 3°, c.p.c. vi è un diverso orientamento della Corte di Cassazione, che ha dettato un principio più elastico, diretto ad interpretare il concetto di prima udienza, ai fini della chiamata di terzo, come quella di effettiva trattazione della causa. Infatti: “Il concetto di “prima udienza” ex art. 269 cod. proc. civ., agli effetti della chiamata del terzo, deve essere inteso in senso non meramente cronologico, bensì sostanziale, come indicativo della fase in cui si abbia una effettiva trattazione e cioè esercizio di attività istruttoria oppure la risoluzione di questioni insorte fra le parti, senza, quindi, che la preclusione per tale chiamata possa verificarsi, qualora, esaurite le attività preparatorie attinenti alla comparizione e costituzione delle parti, si siano avute udienze di mero rinvio, ma non anche espletamento, sia pure in parte, di attività istruttoria o decisoria, a pregiudizio definitivo del terzo chiamato” (C. Cass. Civ. n. 3156/2002; in senso conforme C. Cass. Civ. n. 18455/2007).

 

Ai sensi dell’art. 107 c.p.c. la chiamata in causa del terzo può tuttavia essere disposta anche per ordine del giudice, quando ritiene opportuno che il processo si svolga in confronto di un terzo con il quale ritiene la causa comune. Tale disposto, dettato da esigenze di economia processuale, mira ad evitare al terzo gli effetti pregiudizievoli della sentenza resa fra le parti, nonché la possibilità di giudicati contraddittori. In entrambi i casi, lo scopo viene realizzato in vista del superiore interesse al corretto funzionamento del processo. Non vi è alcuna proposizione d’ufficio della domanda, né sostituzione del giudice alle parti. Si tratta di un intervento, su ordine del giudice, indirizzato alle parti. La citazione del terzo avverrà così a cura della parte maggiormente interessata all’intervento. Infatti ai sensi dell’art. 270 c.p.c. la chiamata di un terzo nel processo, a norma dell’art. 107 c.p.c., può essere ordinata in ogni momento dal giudice istruttore per un’udienza fissata appositamente per consentirne la citazione. Se nessuna delle parti provvede alla citazione del terzo, il giudice istruttore dispone con ordinanza non impugnabile la cancellazione della causa dal ruolo. La chiamata in causa di terzo, ex art. 107 c.p.c., è sempre rimessa alla discrezionalità del Giudice di primo grado, involgendo valutazioni in merito all’opportunità di estendere il processo ad altro soggetto. L’esercizio del relativo potere è insindacabile persino dal giudice di appello (C. Cass. Civ. n. 2558/15) e può essere disposta in ogni momento del giudizio di primo grado (C. Cass. Civ. n. 25127/10).

La chiamata “iussu iudicis”, ex art. 107 c.p.c., potrebbe a pieno titolo interferire o intrecciarsi con la chiamata in causa del terzo da parte dell’attore ex art. 269, 3° comma, c.p.c.. Potrebbe infatti accadere che ad una non attenta lettura degli atti di causa da parte dell’attore, alla prima udienza di trattazione successiva (specie nell’ipotesi di convenuto o terzo chiamato costituitosi alla prima udienza), si manifesti la necessità, successivamente a tale momento preclusivo, di effettuare un’ulteriore chiamata in causa. In tale ipotesi le ragioni dell’attore saranno in tutto o in parte pregiudicate. L’attore dovrà quindi effettuare necessariamente tale valutazione in prima udienza, ma non è detto che ciò sia di così facile attuazione pratica, specie in procedimenti con pluralità di parti, con pluralità di posizioni da esaminare, nel breve arco temporale dedicato alla prima udienza.

Stando all’orientamento rigoroso della giurisprudenza sino ad oggi prevalso (Cass. Civ. 19 ottobre 2015, n. 21088; in senso conforme Cass. Civ. n. 10682/08, Cass. Civ. n. 10682/08; n. 6092/00), la chiamata in causa di terzo, effettuata oltre la prima udienza da parte dell’attore, comporta una decadenza non sanabile (fatto salvo il disposto di cui all’art. 153 c.p.c.). La chiamata del terzo “iussu iudicis”, rimessa alla discrezionalità del Giudice di primo grado, non potrà essere invocata o sollecitata dalla parte decaduta dalla possibilità di citare il terzo (ovvero oltre la prima udienza successiva alla costituzione), per non incorrere nel rischio di extrapetizione della pronucia. Infatti: “in difetto di declinazione, da parte dell’originario convenuto (nella specie, rimasto contumace), della titolarità dell’obbligazione dedotta, con indicazione di quella del terzo, il giudice non può, d’ufficio, ipotizzata l’esistenza di un diverso obbligato, ordinare l’intervento in causa del terzo, una tale iniziativa manifestando non già il legittimo intento di consentire, nel “simultaneus processus”, l’individuazione del vero obbligato, bensì la indebita intenzione di correggere in via officiosa la supposta erroneità della “vocatio in ius” da parte attrice” (C. Cass. Civ. n. 13907/07).

 

Merita infine un cenno l’ipotesi di “collusione” tra attore e convenuto, nell’ipotesi di comunanza di causa con un terzo (al fine di accertare ad esempio l’inesistenza di un rapporto obbligatorio tra le parti o una qualsivoglia responsabilità intercorsa tra le parti), con il deliberato tentativo di escludere il terzo dalla vertenza. Il terzo verrebbe cioè deliberatamente escluso, al solo fine di pregiudicargli quelle difese che potrebbero far emergere una responsabilità a carico di una delle altre parti nei suoi confronti. Se è vero che tali sentenze sarebbero poi soggette ad opposizione di terzo, ex art. 404 c.p.c., quando pregiudicano i diritti del terzo o quando sono l’effetto di dolo o collusione a suo danno, è altrettanto vero che non sempre il terzo ha la possibilità concreta di far valere appieno i propri interessi. E’ questa forse l’ipotesi in cui la chiamata del terzo “iussu iudicis” potrebbe acquisire la maggiore efficacia.

 

Avv. Federico Donini

Pubblicato il 13.10.2017 su Diritto & Diritti – Rivista giuridica elettronica, pubblicata su Internet all’indirizzo: https://www.diritto.it/la-chiamata-causa-del-terzo-parte-dellattore/

http://www.altalex.com/documents/news/2017/10/25/chiamate-in-causa-del-terzo